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CONTRO L’EUGENETICA ECONOMICA E L’EUTANASIA SOCIALE

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Prospettive assistenziali, 184 - 2013

 CONTRO L’EUGENETICA ECONOMICA E L’EUTANASIA SOCIALE

MAURO PERINO *

 

 

Premessa

L’introduzione di quest’articolo è costituita da tre citazioni. La seconda e la terza mi sono venute in mente dopo aver letto – con preoccupazione – la prima che ben evidenzia come, nella gestione del sistema sanitario, si stia diffondendoun orientamento culturale che sostituisce all’etica della cura quella della guarigione e subordina l’erogazione dei trattamenti sanitari al rispetto di criteri economicistici.  Una logica – che si è purtroppo già manifestata, con gravissime conseguenze, in passato – volta ad evidenziare la necessità che lo Stato definisca quali sono le soglie di costo oltre le quali  non è più “conveniente” assistere i malati gravi o terminali ed in generale tutte le persone affette da patologie curabili ma non guaribili.

Le propongo ai lettori di questa rivista, corredate da alcune riflessioni sul tema, con l’auspicio che – insieme – si possa far qualcosa per contrastare la regressione culturale ed etica che è in atto nel nostro sistema sanitario (ma, per certi versi, anche in quello sociale ed educativo). Una regressione sulla quale è necessario che tutti si interroghino. Primi fra gli altri coloro che, nel sistema, operano quotidianamente. Ad essi in particolare rivolgo un invito a salvaguardare e a sviluppare il senso critico necessario a fronteggiare le suggestioni della “modernizzazione” della sanità che è in atto, senza dare per scontato che essa abbia effetti necessariamente positivi.

 

Tre citazioni a confronto

«“I malati terminali ci costano cari: fino a quando potremo curarli?” Il direttore generale dell’Usl 9 Claudio Dario: “200mila euro l’anno per ogni paziente ‘condannato’, sproporzionati ai benefici”. “Con questa crisi tra pochi anni sarà difficile giustificare all’esterno, soprattutto a quelle famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese, che si possono spendere anche oltre 200mila euro all’anno per pagare le cure di un solo paziente che magari ha davanti a se poche settimane di vita”. È questo l’allarme choc lanciato ieri dal direttore generale dell’Usl 9, Claudio Dario, dal convegno “Il governo della spesa del farmaco” organizzato all’ospedale Cà Foncello. L’argomento è delicatissimo. Cosa è possibile fare? “La vita umana viene prima di tutto”, ha ribadito il direttore dell’Usl 9, ma è anche imperativo categorico tagliare da subito la spesa per l’acquisto di medicinali e dispositivi. Magari convincendo anche le aziende farmaceutiche a riconsiderare i prezzi dei farmaci per i malati terminali: “Spro­porzionati al beneficio che possono dare a chi purtroppo ha pochi mesi di vita”» (1).

«Problema: un pazzo costa allo Stato 4 Reichsmark al giorno, uno storpio 5,50, un criminale 3,50. In molti casi un impiegato statale guadagna solo 3,50 Reichsmark per ogni componente della sua famiglia e un operaio non specializzato meno di 2. Secondo un calcolo approssimativo, risulta che in Germania gli epilettici, i pazzi eccetera ricoverati sono circa 300.000. Calcolare: quanto costano complessivamente questi individui a un costo medio di 4 Reichsmark? Quanti prestiti di 1.000 Reichsmark alle coppie di giovani sposi si ricaverebbero all’anno con quella somma?» (2).

«Lo storpio va soppresso senza dolore. Così si fa. Loro non lo sanno, e comunque non hanno nulla nella vita. Basta però non essere teneri! Non siamo mica femminucce! È proprio perché siamo teneri che le prendiamo dai nostri nemici. (…) E lo stesso avviene con gli scemi o i mezzi scemi. Perché persino i mezzi scemi hanno grandi famiglie, e per uno scemo si possono nutrire sei soldati feriti. Naturalmente non tutto è giusto per tutti. Alcune cose non vanno neanche a me, ma qui stiamo parlando in  generale» (3).

Immagino che l’accostamento di citazioni che ho proposto vi sembri un po’ forte. La prima è dei giorni nostri ed è riferita ad un Paese – l’Italia – che non può essere certo paragonato alla Germania nazista (nella quale si situano le altre due). E di ciò, ovviamente, sono convinto anch’io. Quel che però mi preme rilevare non è il dato storico e politico, ma la preoccupante assonanza delle argomentazioni (apparentemente razionali) proposte nelle prime due citazioni (pur così diverse fra loro per tempo e luogo). Quanto alla terza, essa segnala, a mio parere, come nel pensare comune (quello di un semplice soldato), si possa facilmente insinuare l’idea che esistono «vite indegne di essere vissute» (4) da annientare attraverso politiche eugenetiche (5) o praticando l’eutanasia nelle sue varie forme (6).

E per fugare l’eventuale convinzione (certo tranquillizzante) che a tali soluzioni possano esser giunti solo i nazisti tedeschi, ricordo quanto suggerito da Alessandro Berlini: «Le pratiche eugenetiche andrebbero analizzate nella loro specificità, prendendo in considerazione, per ogni singolo contesto, una serie di variabili: il ruolo avuto dagli ambienti scientifici ed i loro legami con le istituzioni, la persecuzione di certe categorie di soggetti piuttosto che di altre, la dimensione dell’ethos collettivo, la struttura sociale ed economica. Esistono evidentemente differenze notevoli tra la Germania nazista, la Svezia socialdemocratica della crescita economica degli anni ’40 e ’50 e gli Stati Uniti del puritanesimo. E le politiche di sterilizzazione forzata che caratterizzarono questi Paesi meriterebbero ognuna un discorso autonomo, perché frutto di sviluppi ed evoluzioni specifiche, e perché funzionali al raggiungimento di differenti obiettivi politicamente imposti. Se, ad esempio, il welfare scandinavo utilizzò le sterilizzazioni per tagliare la quota di assegni di maternità da destinare a madri indigenti, questa razionalità economicistica, seppure ridondante, fu un elemento secondario rispetto al ruolo avuto dal delirio del sangue ariano in Germania, dove dal 1934 al 1938 vennero sterilizzate circa 300.000 persone (…). Se i coniugi Myrdal inciteranno il Parlamento svedese ad impedire la riproduzione di individui “intellettualmente inferiori” perché ritenuti incapaci di provvedere da soli alle esigenze economiche dei propri figli (…), Hitler, molto più semplicemente, sosterrà la necessità della loro eliminazione in quanto “scandalo della razza germanica”, incitando a “procreare creature fatte a somiglianza del Signore e non aborti tra l’uomo e la scimmia”. (…) Così negli Stati Uniti, dove le sterilizzazioni continuano per oltre settant’anni, esse si ritorcono inizialmente soprattutto nei confronti dei delinquenti ospiti di prigioni e riformatori; negli anni ’20 esse prendono di mira gruppi etnici “inferiori” nel nome della salvaguardia della razza Wasp, mentre in seguito la Grande Depressione suggerisce la sterilizzazione di massa di molti soggetti mentalmente  o moralmente irresponsabili internati presso istituzioni, al fine di poterli rimettere in libertà senza il rischio che essi mettessero al mondo una progenie degenerata e, nel contempo, limitando le spese assistenziali» (7).

 

Spunti di riflessione per chi svolge una funzione di cura

«Luogo per sanare e per curare», recitava il cartello davanti alla facciata dell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren da cui inizia Ausmerzen, il racconto dello sterminio di massa conosciuto come Aktion T4 che causò la morte di circa trecentomila esseri umani classificati come «vite indegne di essere vissute» (8).

Io credo che il fatto che la soppressione di creature umane “difettose” abbia preso avvio da una struttura sanitaria dovrebbe generare allarme, in tutti noi, anche ai giorni nostri. Per questo sono convinto che «conoscere le cose serve a togliere alibi a quella che forse è la domanda più inquietante che pone la vicenda dello sterminio dei disabili e dei malati di mente sotto il nazismo: come è stato possibile? È una domanda che deve interrogare ogni persona e in modo particolare e diverso chi a vario titolo svolge una professione in relazione di aiuto: medici, infermieri, insegnanti, operatori del sociale. Perché ciò che accadde non accadde per mano dei cattivi con la divisa e la voce oscena, ma fu fatto da gente che di mestiere si occupava della cura di altri. Colleghi di un tempo che fu. Per questo bisogna partire da quel cartello: luogo per sanare e curare. Chi abitava in quei luoghi?» (9).

Operatori sanitari, persone comuni come tutti noi lo siamo, che «giorno per giorno dividono i pazienti in due categorie: quelli che possono morire e quelli che devono vivere. E si impegnano a far sì che i primi riescano a farlo nel più breve tempo possibile. Ogni medico diventa arbitro del suo reparto, ha potere di tenere in vita o di concedere morte pietosa. Quasi nessuno ormai lo trova strano, si sono abituati ad uccidere o a far morire di fame i pazienti. Si sono abituati» (10).

E chi abita invece i nostri attuali luoghi per sanare e per curare? Certamente i 37 esperti, coordinati dal professor Richard Sullivan del King’s College di Londra, che in un articolo pubblicato su Lancet Oncology del settembre 2011 sostengono «che molte terapie non devono essere praticate ai malati terminali, perché danno una falsa speranza e per quanto riguarda i costi “i dati dimostrano che una sostanziale percentuale delle spese per cure anti-cancro avvengono nelle ultime settimane e mesi di vita e che in larga percentuale dei casi queste cure non solo sono inutili ma anche contrarie agli obiettivi e alle preferenze di molti pazienti e famiglie se fossero state adeguatamente informate delle loro opzioni”» (11).

Sono inoltre abitati da operatori evidentemente non indenni dai “difetti” dei «colleghi di un tempo che fu» i luoghiin cui giacciono «pa­zienti anziani e vulnerabili abbandonati sui propri letti, non lavati per un mese, costretti a urinare e defecare nelle lenzuola, lasciati senza cibo né acqua, al punto da costringerli a bere quella dei vasi di fiori per dissetarsi. E poi medici e infermieri assenti, cure inesistenti, malati rilasciati quando sono ancora gravi. Morale: 1.200 morti che potevano essere salvati. Stiamo parlando di un ospedale del Terzo Mondo? No, parliamo del Mid Staffordshire Nhs Foundation Trust di Stafford, un ospedale pubblico della civile Inghilterra, messo sotto accusa come mai era capitato prima dal rapporto di una commissione d’inchiesta governativa. Un triste e isolato caso di malasanità? No, purtroppo, perché altri cinque ospedali del Regno Unito sono sotto inchiesta, con il sospetto di altre 3.000 morti “non necessarie”, cioè che si potevano e dovevano evitare, pazienti lasciati morire per incuria, negligenza, menefreghismo. O addirittura perché conviene così: “Un sistema che mette gli interessi dell’azienda ospe­daliera e i controlli dei costi prima dei pa­zienti e della loro salute”, afferma il rappor­to» (12).

 

La valutazione utilitaristica

della salute

I malati nella fase terminale della loro vita ed in generale le persone con malattie inguaribili pongono una serie di problemi medici, umani esistenziali, etici e giuridici che possono ricevere risposte differenziate a seconda dell’orientamento che viene assunto dai soggetti preposti alle cure. E ciò avviene con riferimento a due concezioni tra loro contrapposte: «la concezione utilitaristica dell’uomo-oggetto, uomo-massa, uomo-mezzo, come tale strumentalizzabile per finalità extrapersonali; la concezione personalistica dell’uomo-valore, uomo-persona, uomo-fine, punto di incontro dell’antropologia e dell’umanesimo sia delle concezioni religiose monoteistiche sia delle concezioni autenticamente laiche (non laiciste-libertarie), che riconoscano kantianamente all’essere umano una dignità che ne fa un soggetto fine in sé e non un mezzo» (13).

Corollario della concezione personalistica è il principio dell’indisponibilità dell’essere umano che subordina ogni intervento sulla persona al rispetto dei principi della salvaguardia della vita, della integrità fisica e della salute, nonché dell’eguaglianza e pari dignità delle persone alle quali deve sempre essere richiesto il consenso informato.

Al contrario, il corollario della concezione utilitaristica è la massima disponibilità dell’essere umano. In essal’utilitarismo viene declinato in tre grandi tipologie: l’utilitarismo pubblico-collettivistico, in nome del quale  «sono stati legittimati i più efferati misfatti contro l’uomo della storia umana (dalla rupe di Sparta alle sperimentazioni, sterilizzazioni, eutanasie ed aborti eugenetici di massa, quali quelli compiuti da pseudoscienze naziste e nipponiche, asservite ai più inumani totalitarismi politico-ideologici»; l’utilitarismo maggioritario di tipo anglosassone, grazie al quale «in nome della maggiore felicità per il maggior numero a scapito di pochi sono state legittimate sperimentazioni sui cosiddetti “soggetti predisposti” ad essere cavie (con­dannati a morte, moribondi, malati di mente, vecchi, bambini, studenti di medicina, malati non paganti, di basso livello culturale o appartenenti a Paesi sottosviluppati)»; infine l’utilitarismo individualistico-egoistico, che «in nome della maggiore felicità propria ed in un soggettivismo tendenzialmente senza limiti (…) eleva la libera volontà individuale a summa lex», legittimando così «l’incontenibile politica della “liberalizzazione” (dell’aborto libero, droga, alcolismo, sterilizzazione anche irreversibile, transessualismo, locazione del grembo materno, eutanasia, suicidio, ecc.)» (14).

In buona sostanza l’etica dell’utilitarismo prescrive che è perseguibile e desiderabile solo la felicità o l’utilità intesa come prevalenza netta del piacere sulla sofferenza.  In quest’ottica – e con riferimento al sempre più pressante problema dell’allocazione delle risorse in campo sanitario – «non è mancato (…) chi, guardando al modello teorico dell’utilitarismo sociale, considerato in termini di razionalizzazione di risorse, ha indicato l’obiettivo nel “raggiungimento del miglior saldo attivo di benefici sui costi (o come altri preferiscono, di efficacia o efficienza sui costi) per tutti gli interessati”. In sostanza, in tale prospettiva, si tratterebbe di stabilire che “nel calcolo pragmatico costi/benefici e costi/efficienza si individui il mezzo che consenta di raggiungere il risultato con i minori costi (finanziari e umani)» (15). In pratica il “bene salute” – e addirittura il “bene vita” – vengono analizzati sulla base del rapporto costi-benefici: correlando il costo in denaro di una prestazione sanitaria al beneficio dello stato di salute o dell’essere in vita.

 

Il valore monetario della vita in sanità

Come viene efficacemente spiegato da Gianfranco Domenighetti, per perseguire tali finalità gli economisti hanno inventato un indicatore per valutare «il costo monetario di un anno di vita guadagnato e ponderato in funzione della qualità della vita (post intervento) del paziente. Questo parametro è stato denominato Qaly (Quality adjusted life years). Nei Paesi anglosassoni (in particolare in Gran Bretagna e Australia) i Qaly sono diventati la base decisionale principale per stabilire come allocare le risorse disponibili in modo razionale in funzione dei costi e dei benefici di un intervento medico-sanitario» (16).E se un trattamento ha un costo per Qaly superiore a 30mila sterline (cifra, corrispondente a poco più di 37mila euro, rimasta invariata negli ultimi 20 anni), «il National Health Service non lo considera un trattamento costo-efficace e pertanto lo esclude dal “pacchetto” di prestazioni offerte ai cittadini dal Servizio nazionale di salute» (17).

In Gran Bretagna le valutazioni costo-utilità sono affidate ad una agenzia indipendente denominata Nice (National institute for health and clinical excellence) e si basano sulla metodologia per il calcolo dei Qalys associati ad un dato intervento che prevede: «1) Descrizione degli stati di salute sperimentati dai pazienti, attraverso strumenti multidimensionali di misurazione della salute. Il più usato è EQ-5D (Euroquol), basato su cinque dimensioni (mobilità, cura di sé, attività usuali, dolore e disagio, ansia e depressione) e tre livelli di gravità (nessun problema, alcuni problemi, problemi estremi) per un totale di 243 stati di salute univoci. 2) Conversione di ogni singolo stato di salute in un coefficiente unico di qualità di vita basato sulle preferenze di un campione rappresentativo di popolazione (non di malati!) tramite tecniche di rilevazione delle preferenze. 3) Calcolo  dei Qalys associati ad un intervento, moltiplicando la durata di vita attesa in seguito ad un determinato intervento con il rispettivo coefficiente di qualità di vita» (18).

Posto che andrebbe verificato se gli strumenti generici di valutazione degli stati di salute utilizzati sono sufficientemente sensibili per cogliere i cambiamenti, spesso sottili, nei sintomi e negli effetti collaterali legati alle patologie esaminate (ad esempio quelle tumorali menzionate nella prima citazione proposta), il quesito più importante da porre è – secondo Gian­franco Domenighetti – se «le preferenze espresse da un campione rappresentativo della popolazione possono essere considerate identiche a quelle che sarebbero state espresse da coloro che hanno realmente la patologia (malati). Si pone dunque la questione essenziale se sia sufficientemente affidabile lasciare la valutazione a persone sane, per stati di salute percepiti in modo molto diverso da chi è chiamato a viverli in prima persona» (19).

Per dirla in altre parole: chissà se il citato soldato tedesco prigioniero che affermava con sicurezza – ma «parlando in  generale» – che «lo storpio va soppresso senza dolore» si sarebbe espresso negli stessi termini se a causa delle ferite subite in guerra, lo storpio fosse stato lui?  Ed inoltre, volendo rimanere nell’attualità, occorre capire come vengono comunemente intesi – in sanità – il concetto di qualità della vita, il rapporto tra salute e allocazione di risorse e se vi è consapevolezza delle criticità insite nel sistema di valutazione Qaly.

Il Dizionario di medicina dell’Enciclopedia Treccani.it, alla voce “qualità della vita” così si esprime: «Valutazione su scala semiparametrica del benessere fisico, psichico e sociale, eseguita generalmente allo scopo di interpretare la risposta a una terapia o valutare, sulla scorta dell’aspettativa e della qualità della vita prevista, l’idoneità di un esame diagnostico o di un trattamento». Segue il paragrafo: «Salute e allocazione delle risorse» ove si chiarisce che «L’affermazione del concetto per cui i sistemi sanitari sono organismi a risorse limitate ha reso inevitabile l’assegnazione di priorità assistenziali in base a criteri espliciti allo scopo di elevare il più possibile il livello di salute generale utilizzando le risorse disponibili. Allo scopo è stato introdotto il concetto di Qaly (Quality adjusted life years, “anni di vita corretti per qualità”), che esprime una stima dell’aspettativa di vita corretta per le condizioni di salute psico-fisica in modo da poter valutare oggettivamente l’appropriatezza di esami diagnostici e terapie».

La parte conclusiva del testo – intitolata «L’importanza dell’età» – è, fin dal titolo, chiarificatrice in ordine alle problematiche poste dal sistema. «I Qaly sono spesso criticati in quanto discriminano gli anziani, perché ovviamente la distribuzione delle risorse a persone più giovani ha una probabilità superiore di incrementare la salute in termini di numero di anni di vita validi dal punto di vista della qualità. L’idea che l’età possa essere significativa nell’allocazione delle risorse è stata materia di notevoli controversie. Si può comunque concordare nel considerare l’età importante in riferimento a specifiche condizioni o a determinati trattamenti, in quanto alcune forme di intervento semplicemente sono prive di valore se condotte in determinate fasce di età. Un esempio è lo screening per i tumori della mammella, che è ritenuto inefficace se non addirittura potenzialmente dannoso per le donne più giovani. Rimane comunque controversa l’ipotesi secondo la quale gli anni di un individuo possano essere discriminanti quando si debba decidere, in generale, se persone di una certa età non debbano godere di priorità nell’allocazione di fondi per l’assistenza sanitaria».        

Giova a tale proposito osservare che i testi di economia sanitaria in uso nelle nostre Facoltà di medicina definiscono la valutazione dei costi-utilità (nella quale rientra l’utilizzo dei Qaly) come una delle varianti dell’analisi costi-benefici in senso proprio. Metodo di analisi secondo il quale i vantaggi delle alternative che si confrontano devono poter essere sempre tradotti in benefici monetari, che si possono quantificare sommando due componenti: i costi futuri che un intervento sanitario permette di evitare e il tempo di vita recuperato. E per quanto riguarda questo secondo aspetto – e cioè l’attribuzione di un valore monetario alla vita – i due metodi principali in uso secondo i manuali sono:

•  il metodo del capitale umano. Attraverso il recupero della salute si mantiene il valore del capitale umano che coincide con quello della persona sulla quale si interviene. Persona che vale di più o di meno in base alle sue possibilità produttive, ovvero dei suoi guadagni. Il valore di una vita restituita alla salute può dunque essere espresso come il valore monetario del prodotto derivante dal lavoro recuperato (di solito determinato con riferimento alla retribuzione di tale lavoro);

• il metodo della disponibilità a pagare. Si assume come riferimento quanto gli individui (individuati come consumatori) sono disposti a pagare per ridurre il rischio, di morte o di ammalarsi, da un determinato livello ad uno più basso.

In un’ottica in cui, già in partenza, si attribuisce un diverso valore monetario alla vita per poi distinguere ulteriormente tra vita e qualità della vita (peraltro valutata sulle base delle preferenze di un campione rappresentativo di popolazione e non di quelle dei malati) «è  evidente che il sistema dei Qaly favorisca una serie di discriminazioni ai danni di varie categorie di persone. Gli anziani, infatti, si troverebbero, per la loro età, in una posizione di iniziale e irrecuperabile assoluto svantaggio, poiché nel calcolo anni di vita/qualità della vita, un giovane garantirebbe una resa maggiore. Se poi il metodo fosse adottato su larga scala, nazionale o internazionale, allora, diverse categorie di persone si troverebbero ad essere escluse dal trattamento sanitario: non sarebbe questa una grave forma di eutanasia economica? Inoltre, tra due pazienti affetti dalla stessa malattia, si troverebbe avvantaggiato quello con una condizione patologica meno grave: in questo caso, per l’altro paziente, verrebbe consigliata l’eutanasia pietosa? Sono considerazioni le quali ci fanno riflettere e ci sollecitano a chiederci se il “diritto alla salute” abbia ancora una ragione di esistere all’interno dei nuovi sistemi sanitari europei» (20).

 

Morire perché si è di peso

per la società

La non auspicabile diffusione generalizzata, nel nostro sistema sanitario, di metodologie di analisi costi-utilità finalizzate a valutare se conviene o meno effettuare un intervento sanitario (in genere rivolto alle gravi affezioni croniche) porrebbe, oltre ai problemi etici già evidenziati, anche seri problemi di ordine giuridico. La conseguenza di tale impostazione (di marca anglosassone ed in particolare statunitense) è infatti che «il diritto alla salute e, quindi, il diritto alla vita sono valutati economicamente, meglio sono ricondotti al mondo economico-sociale, e non rappresentano di per sé un valore personale, come è, per esempio, nell’Europa continentale» (21). E ciò comporta che l’utilizzo di tali metodologie per selezionare l’accesso alle cure è contrario alla nostra Costituzione ed in particolare all’articolo 32: «La Repubblica tu­tela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Le legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».  

Dunque la Carta – che in molti vorrebbero, non a caso, “modernizzare” – rappresenta un baluardo contro le «pericolose idee neo-utilitaristiche, volte a legittimare l’eutanasia economica, con lo scopo di liberare la società dal peso economico di molti malati che soffrono di malattie lunghe e costose» (22). Idee che, purtroppo, stanno tornando in auge (23) e che ripropongono, senza nominarla, una versione dell’eutanasia in veste “sociale”, non più come forma attiva di intervento ma passiva. Il tutto allo scopo di non “sprecare” risorse per la cura dei vecchi e non più produttivi pazienti. «Con l’eutanasia sociale» infatti «un essere umano vivente è soppresso non per sua decisione, non perché giunge il momento della sua naturale morte, ma perché è di peso alla società» (24). 

«In Italia, in ogni caso, è vietato sopprimere la persona gravemente malata con l’eutanasia. Tuttavia, un sistema analogo, meno violento e meno evidente, ma non per questo meno efficace» è «quello che viene realizzato con le dimissioni (o il non ricovero) in ospedale di persone malate croniche non autosufficienti. È la morte lenta, la morte per abbandono, la morte per sottrazione delle cure (non quelle fondamentali legate alla macchina che ti tiene in vita), ma quelle ugualmente importanti per poter terminare in modo il più possibile indolore l’esistenza» (25).

Nel messaggio inviato in occasione del convegno di Milano del 24-25 ottobre 1996 sul tema “Anziani attivi e anziani malati cronici nel­l’Europa del 2000: orientamenti culturali ed esperienze a confronto”, organizzato dall’Isti­tuto italiano di medicina sociale, dalle riviste Sanitas Domi e Prospettive assistenziali, dall’Associa­zione promozione sociale, dalla Scuola dei diritti “Daniela Sessano” dell’Ulces con il patrocinio del Ministro per la solidarietà sociale, della Regione Piemonte e della rappresentanza della Commissione Europea, l’allora Arcivescovo di Milano, aveva preso posizione su «un gravissimo problema che mi sta a cuore ed è emerso drammaticamente in episodi anche recenti i cui protagonisti erano soggetti malati inguaribili e non autosufficienti». Al riguardo aveva affermato che «sono purtroppo decine di migliaia gli anziani cronici non autosufficienti dimessi, anche in modo selvaggio, per far posto ad altri malati. Alla radice di questo tarlo sta la convinzione che inguaribili equivalga a incurabili, convinzione che non possiamo accettare. Infatti, la situazione di gravità esige che il paziente viva dignitosamente gli ultimi giorni della sua vita ed è dovere della società civile assicurargli tutte le cure di cui ha bisogno. Anzitutto nella propria famiglia (cure domiciliari), poi nei day hospital, negli ospedali, nelle residenze sanitarie e ci auguriamo perciò che tali ambiti diventino una risposta, non la sola, di cura reale, in stretta collaborazione con le strutture sanitarie, considerata la gravità dei pazienti che dovrebbero ricoverare. Inoltre spero e mi auguro che nel dibattito in corso sul tema dell’eutanasia (attiva o passiva) si faccia il possibile affinché nel frattempo le persone non più in grado di esprimere la loro voce non subiscano nei fatti un’eutanasia da abbandono da parte di chi, in nome della razionalità delle risorse, vorrebbe negare le prestazioni sanitarie cui hanno diritto come tutti i malati, secondo quanto è previsto dalle leggi sanitarie in vigore nel nostro Paese».

Dalle parole del compianto Cardinal Martini si comprende come, da tempo, non si possa più fingere di ignorare che la negazione delle cure attraverso la dimissione impropria o il non ricovero di un malato cronico non autosufficiente è – per quanto attiene alle conseguenze nefaste sulla sua possibilità di vita  – una forma di eutanasia da abbandono che purtroppo viene largamente praticata nel nostro Paese.

Ed è di pochi mesi addietro il forte ammonimento ad evitare tale indegna pratica pronunciato da Papa Francesco in occasione dell’incontro con i ginecologi cattolici del 20 settembre 2013, promosso dalla Federazione internazionale delle Associazioni dei medici cattolici: «Ogni anziano, anche se infermo o alla fine dei suoi giorni, porta in sé il volto di Cristo. Non si possono scartare, come ci propone la “cultura dello scarto”! Non si possono scartare!».

Al medico viene oggi richiesto di svolgere, oltre ad una funzione di diagnosi e cura a favore del paziente, anche di amministrare il budget che gli viene assegnato. È insomma anche un manager che «in tale duplice funzione, inconsapevolmente o intenzionalmente, nel suo agire professionale, può essere sollecitato non dal perseguire il bene del paziente ma da motivazioni di ordine economicistico» (26). E quando sono queste ultime a prevalere assistiamo, purtroppo con sempre maggiore frequenza, alla pratica del rifiuto di riconoscere lo status di malato alla persona che si trova in condizione di non autosufficienza a causa di patologie croniche. Una pratica attraverso la quale il medico si sottrae alla sua doverosa responsabilità di fornire le cure necessarie ed opera risparmi sul budget assegnato negando, a questa persona, gli stessi diritti previsti per gli altri cittadini malati (27).

Conclusioni

Ci sono domande che chi, come me, lavora nei servizi alla persona non può eludere. Le ha ben formulate il Dottor Giuseppe Battimelli e ve le propongo per introdurre la conclusione di quest’articolo.

«Come va considerato allora “il costo” della malattia in senso simbolico ed etico e come analisi dei costi (Cost of illness, Coi) sostenuti dalla società in termini di produttività oltre che dal sistema sanitario? È possibile subordinare il bene salute (ed il valore della vita) come bene personale ad un’utilità collettiva? È lecito ritenere una vita degna di essere vissuta solo quella caratterizzata da una eccedenza del pia­ce­re e della felicità sul dolore e sulla ma­lattia? È giusto che prevalga nel sistema sanitario pubblico una concezione economicistica che offuschi e contraddica un modello di servizio sanitario di tipo universalistico e solidaristico?» (28).

Oggi il mercato è sovrano ed impone a tutti noi che lavoriamo nella sanità, nel sociale, nella scuola, ecc. la dittatura dei costi sui benefici. E l’unico modo di combattere questa dittatura – come suggerisce Marco Paolini nel suo libro – è di aver sempre ben chiaro cosa sono quei benefici che a volte ci sembrano valere meno del loro costo ed altre volte li sottovalutiamo, ma ce ne accorgiamo solo quando ce li hanno tolti.

Quella della riduzione del costo “a tutti i costi”è una logica eugenetica. Una logica alla quale appartiene anche il fatto scandaloso di costringere una persona adulta con grave handicap intellettivo a vivere con la bellezza di 275,00 euro al mese ben sapendo che, se non ci fosse la famiglia a farsi carico delle spese per le esigenze basilari del congiunto, questi non potrebbe sopravvivere (*). Ed anche quando il livello di gravità dell’handicap è tale da consentire di beneficiare dell’indennità di accompagnamento, non si può certo sostenere che queste persone – spesso incontinenti, che necessitano dell’aiuto di terzi per mangiare, bere, lavarsi, vestirsi, ecc. – possano soddisfare, con la miseria di 16,00 euro al giorno, i bisogni quo­tidiani, indispensabili per continuare a vivere.

Per combattere questa logica perversa «non basta difendere dei posti di lavoro; giocare in difesa facendo catenaccio può servire se si punta al pareggio, per vincere bisogna immaginare che non è scontato che perderemo i benefici; dovremo di sicuro ridistribuire i carichi  e la spesa, ma non significa che lasceremo perdere e cadere quel che di buono abbiamo imparato. Ogni insegnante, ogni infermiere, ogni educatore sa che non si tratta solo di qualcosa ma di qualcuno, qualcuno che ha la faccia da schiaffi (…) o quella smarrita di un antenato ancora in vita o di qualcun altro decisamente fuori di testa (…). A quelli che parlano di grandi sfide e si esaltano rispondo che non c’è sfida più bella che quella di non perdere nessuno per strada, di non lasciarlo indietro».

Dobbiamo contrastare – nel nostro agire quotidiano di cittadini e nei servizi in cui operiamo – la logica utilitaristica che mira ad instillare, in tutte le persone, la devastante concezione secondo la quale vale la pena vivere solo se la salute e la vita raggiungono un livello di qualità socialmente apprezzato e se hanno un valore economico tale da giustificare i costi che la cura comporta per lo Stato. «Ciò apre le porte ad una deriva e a una mentalità di eutanasia sociale: quando un paziente affetto da grave patologia comincia a sentirsi un peso, assistenziale ed economico, per lo Stato, la società e anche per la famiglia, forte sarà la tentazione di chiedere che vengano eliminate le sue sofferenze e che venga aiutato a morire. E magari la sua richiesta sarà considerata da molti altamente “civile” e “responsabile”» (29).  

Credo che il diritto di morire con dignità (che secondo me è compreso nel diritto di vivere) possa essere esercitato sulla base di una libera, e quindi consapevole, scelta personale che va difesa in quanto tale. Per questo «è fuori discussione l’illiceità morale di ogni eutanasia imposta per costrizione» (30). Per fronteggiare l’insorgenza dell’eugenetica e dell’eutanasia nelle nuove subdole forme che queste pratiche assumono ai giorni nostri, non servono però le spesso semplicistiche affermazioni di principio.Occorre pretendere – come da decenni viene affermato dalle pagine di questa rivista – che ai malati, compresi quelli colpiti da malattie inguaribili e da non autosufficienza e a coloro che sono nella fase terminale della vita, siano assicurate – come del resto prevede la legge –  tutte le necessarie cure mediche ed infermieristiche e tutte le prestazioni socio-relazionali: sia nei casi di ricovero in strutture sanitarie, sia quando il malato vive a casa sua presso i suoi congiunti. È inoltre doveroso, sia dal punto di vista etico che giuridico, che vengano fornite alle persone ammalate tutte le prestazioni occorrenti per eliminare il dolore o per ridurlo in tutta la misura possibile, così da «non far nascere» strumentalmente «il desiderio di morte» (31)nell’assistito.

 

 

* Direttore del Cisap, Consorzio dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino).

(1) Mauro Favaro, “I malati terminali ci costano cari: fino a quando potremo curarli?”,Il Gazzettino.it, 16 maggio 2012.

(2) Problema riportato nei manuali di aritmetica delle scuole elementari del Terzo Reich. La citazione è ripresa dal libro di Marco Paolini, Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, Einaudi, 2012.

(3) Sonke Neitzel, Harald Welzer, “Soldaten. Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli Alleati”, Garzanti, 2012.

(4) Marco Paolini, Op. cit.

(5) L’eugenetica è la «disciplina che si prefigge di favorire e sviluppare le qualità innate di una razza, giovandosi delle leggi dell’ereditarietà genetica. Il termine fu coniato nel 1883 da F. Galton. Sostenuta da correnti di ispirazione darwinistica e maltusiana, l’e. si diffuse inizialmente nei Paesi anglosassoni e successivamente in Germania nazista, trasformandosi nella prima metà del 20° sec. in un movimento politico-sociale volto a promuovere la riproduzione di soggetti desiderabili (e. positiva) e a prevenire la nascita di soggetti indesiderabili (e. negativa) per mezzo di infanticidio e aborto», www.treccani.it. «L’eugenetica non è solo un fenomeno storico. È anche e soprattutto una logica; rappresenta un principio di esclusione e di discriminazione che col tempo cambia strategia, modifica gli strumenti attraverso i quali opera, si adegua alle congiunture sociali e geopolitiche, facendo oscillare costantemente lo spazio semantico di categorie come quelle di devianza e normalità in relazione a coloro che, in un dato momento storico, vanno considerati da normalizzare o da emarginare», Alessandro Berlini, “Eugenetica, biopolitica e modernizzazione. Un intreccio occidentale”, documento tratto dal sito Museo delle Intolleranze e degli Stermini - www.romacivica.net/amis.

(6) «Il termine eutanasia è composto dalle parole greche eu (bene) e thanathos (morte). Dunque, il suo significato letterale è “buona morte”, e storicamente è connesso ad una definizione valutativa dell’atto del morire, intesa come morte naturale dell’uomo saggio, pio e del santo (…). Oggi, il termine ha assunto un significato completamente diverso, ed è in questa nuova accezione che qui dovremo prenderlo in considerazione all’interno di un discorso di bioetica: per eutanasia si intende quindi la morte intenzionalmente provocata da parte di una terza persona, con una condotta attiva ma eventualmente anche con un atto di omissione, ai danni di un uomo gravemente ammalato o più in generale sofferente. Circa le motivazioni che possono determinare questo atto (…) si registrano svariate ipotesi a seconda dell’ampiezza e del riferimento etico culturale dentro il quale ci si colloca. Ricordiamo alcune fra le principali argomentazioni: a) necessità di evitare la propria sofferenza fisica: in tal caso si pratica l’eutanasia su richiesta, attuabile ove vi sia una esplicita domanda di morte, accompagnata dalla disponibilità di altri ad eseguirla; b) necessità di abbreviare la presunta sofferenza altrui: in questo caso, può  anche esservi domanda di eutanasia, ma sono le terze persone (parenti, amici, medici, infermieri) a reputare che sia meglio per il paziente morire piuttosto che continuare a vivere; c) necessità di assecondare le richiesta di morte, anche quando esse siano connesse non a uno stato patologico grave comprovato – più o meno terminale – ma anche quando siano motivate con un disagio psicologico in assenza di malattie dell’organismo; d) considerazioni di politica sanitaria e di allocazione delle risorse: in questo orizzonte la volontà del malato e degli stessi familiari può essere superata e persino prevaricata dai superiori interessi dello Stato. A questa ultima ipotesi si ricollega il poco noto “Piano T4”, che rappresenta il primo caso di applicazione pianificata dell’eutanasia di Stato per ragioni eugenetiche, ideata da Adolf Hitler e da alcuni medici del suo seguito nel 1937, attuata nella Germania nazista (…)», Mario Palmaro, “La definizione di eutanasia”, www.portaledibioetica.it

(7) Alessandro Berlini, Op. cit.

(8) Marco Paolini, Op. cit.

(9) Mario Paolini, “Luogo per sanare e curare”, in Marco Paolini. Op. cit.

(10) Ibidem.

(11) Giuseppe Battimelli, “Il dibattito in bioetica. Il ‘costo’ della prestazione sanitaria: un problema solo di informazione?”, Medicina e morale, n. 2 del 2013.

(12) «E chi tra infermieri e medici provava a dare l’allarme veniva sottoposto a bullismo e costretto a tacere. Questa è la nazione in cui è nato il welfare, l’assistenza pubblica. Qui, durante la cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Londra 2012, hanno avuto un posto d’onore le infermiere, come eroine della storia patria. Ma i tagli al bilancio della sanità, iniziati da Blair e continuati da Cameron, hanno lasciato la National Health Service in condizioni disastrose»,  Enrico Francaschini, “Gran Bretagna, migliaia di morti per malasanità”, La Repubblica, 8 febbraio 2013. «Il primo ministro David Cameron si è scusato per il grave scandalo che ha travolto la sanità britannica. Al centro della vicenda, la morte sospetta di centinaia forse migliaia di pazienti – le stime oscillano tra 400 e 1.200 – ricoverati nello Stafford Hospital tra il 2005 e il 2009, lasciati senza cibo né acqua e nella sporcizia da chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro. Una vicenda denunciata dai familiari e che è stata oggetto di un’inchiesta i cui risultati sono stati presentati ieri in Parlamento da Cameron, che ha evidenziato l’urgente necessità di cambiare la cultura del Servizio sanitario nazionale britannico. Il premier si è detto “profondamente dispiaciuto” per l’accaduto, riferisce la Bbc online, aggiungendo che il Governo deve “modificare la cultura del disinteresse”», Adnkronos Salute, Roma, 7 febbraio 2013.

(13) Ferrando Mantovani, “Biodiritto e problematiche di fine della vita”, Criminalia 2006, www.edizioniets.com

(14) Ibidem.

(15) Lucia De Pascalis, “Persona, etica e mercato nel sistema sanitario”, Idee,  siba-ese.unisalento.it

(16) Gianfranco Domenighetti, “Scarsità di risorse: efficienza economica verso efficacia clinica”, relazione tenuta al Convegno ”Etica e deontologia nell’allocazione delle risorse”. Udine, ottobre 2012.

(17) Ibidem.

(18) Ibidem.

(19) Ibidem.

(20) Lucia De Pascalis, Op. cit.

(21) Ibidem.

(22) «L’eutanasia economica, consiste nell’eliminazione indolore di tutti quegli individui che, malati incurabili, non sono più capaci di produrre e, quindi, sono di peso economico alla società. Un’economia dei mezzi, dunque, per la quale gli invalidi, i malati incurabili, le cosiddette “bocche inutili da sfamare” sono considerati esseri da annullare». Ibidem.

(23) «Durante la Prima guerra mondiale la mortalità nei manicomi dei Paesi coinvolti nella guerra aumentò in modo tragico. Dovendo scegliere, dicevano i direttori come tristi padri di famiglia, meglio lasciare l’unica minestra all’uomo valido che combatte al fronte, che a quello inabile cha mangia a sbafo. In italiano si dice così, in tedesco invece nutzlose Esser, mangiatore inutile. Erano morti naturali, in fondo, le morti per fame». Marco Paolini, Op. cit.

(24) Antonio Tarantino, “Eutanasia e diritto alla vita: problemi etico sociali”, Medicina e morale, n. 2 del 1992.

(25) Maria Grazia Breda, “Eutanasia attiva, passiva e da abbandono”, Prospettive assistenziali, n. 101, 1993.

(26) Giuseppe Battimelli, Op. cit.

(27) Nella letteratura sanitaria i meccanismi di razionamento degli interventi risultano puntualmente codificati: per deterrenza (ticket, accessibilità); per ritardo (liste d’attesa); per deflessione (ricovero impossibile senza richiesta del medico di base); per diluizione (riduzione dell’offerta attraverso la riduzione della quantità e/o della qualità del servizio); per selezione (trattamento per pazienti con maggiori probabilità di successo); per interruzione (del trattamento); per rifiuto (esclusione di una prestazione o di un servizio dal finanziamento).

(28) Ibidem.

(*) “Quanto costa alla famiglia un congiunto con grave handicap intellettivo?”, Prospettive assistenziali, n. 180, 2012.

(29) Giuseppe Battimelli, Op. cit.

(30) Hans Kung, Walter Jeans, Sulla dignità del morire - Una difesa della libera scelta, Edizioni Rizzoli, Milano.

(31) Ibidem.

 

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